Il cucchiaio non esiste.

E ho dubbi anche su tutto il resto.

Trattato pseudofilosofico. Non vuol dire nulla.


Penso che una delle cose più brutte che una persona possa provare sia il sentire di voler dire qualcosa, o scrivere qualcosa, e non riuscirci. Ad esempio, ho iniziato questo post, ma non so se lo finirò, o se lo cancellerò appena finito. Sto ascoltando dal mio Rhythmbox di Ubuntu un po’ di indie. L’indie mi dà sia energia, carica, ma anche malinconia. Non chiedetemi perché, tanto non ho una risposta, è solo una sensazione. Tutti abbiamo sensazioni, su tante cose, anche sceme, perché no. Per dire, io associo alla house il colore verde. Sensazioni. Stasera ho visto, anche se è uscito qualche bell’anno fa, “dazeroadieci”, il secondo film di Luciano Ligabue. Sono rimasto colpito dal fatto che uno dei protagonisti, Giovanni “Giove” Benassi, sia (nella storia) il fratello di Ivan “Freccia” Benassi, il protagonista di “Radio Freccia”, prima opera cinematografica di Liga, che era interpretato da Stefano Accorsi. Ma non volevo dire nulla della storia. …Ecco, ho perso il filo del discorso, distratto del “batteria quasi scarica” del Nokiovo. Mi sto facendo distrarre molto, in questo periodo. Ogni piccola cosa può farmi distogliere l’attenzione da ciò su cui ero concentrato, magari non con pochi sforzi. Che sia lavoro o Ps2 non conta, mi lascio distrarre. Oh, non è normale. Chi mi conosce starà già pensando che sia colpa di quest’ultimo mese, che mi ha visto transitare da un momento di dispiacere ad uno di menefreghismo, passando per la rabbia e tornando alla confusione. In tutto questo quadretto ci sono io, che devo trovare la via di uscita. Il fatto peggiore è quando non hai per nulla voglia di uscirne. No, non dico di uscire da quello in cui ero e che a forza ho dovuto lasciare, ma uscire dalla stasi, dal limbo, da quel grigiore che non è più nero ma non è nemmeno bianco. “Lì, sempre lì, lì nel mezzo, finché ce n’hai stai lì”, ma io non ne ho più, e sto lì lo stesso. Passi dall’avere tutto o quasi, al non avere più niente, al voler riavere, al capire che non puoi riavere, al pensar di non voler niente, al credere di voler qualcosa, al decidere che non vuoi fare neppure il minimo sforzo né per riavere, né per avere, e nemmeno per non volere. … Ho appena riletto cosa ho appena scritto. Faccio fatica a trovarci un senso, ma ce lo trovo in effetti. Non preoccupatevi, se fatico io non sclerate voi. Penso che il riassunto migliore stia nella parola indifferenza: secondo il De Mauro “atteggiamento di chi prova o mostra disinteresse, noncuranza, distacco; calma spirituale, imperturbabilità, stato di tranquillità dell’animo che, di fronte a una decisione da prendere, non propende per nessuno dei termini di un’alternativa”. Mi sa che ci ho preso allora. Ho cambiato la foto del mio profilo, sia quello di Blogger (dove ho aggiornato pure l’età, ero rimasto indietro) che quello Live. Perché poi, non lo so. Che pretendete. In tutta questa incertezza imperante che mi compre come un temporale estivo, e mi bersaglia di fulmini, una cosa l’ho capita. Ho capito che indifferenza non è debolezza, lo si può essere anche se forti. Anzi, probabilmente l’indifferenza deriva proprio dalla forza, forza di non affogare nelle cose, quasi di poter scegliere se affondarci dentro o farcele scivolare addosso. Scelte? Questo è un altro discorso. Per ora scelgo di non guardare “Kingdom Hospital”, serie prodotta e scritta da Stephen King che Italia1 passa a orari improbabili (mentre scrivo), e mi fa alquanto schifo. Ultima cicca della giornata, poi vado a dormire. Forse dormo stanotte, visto che la scorsa mi sono svegliato, svegliato, svegliato, svegliato. Notte.